Storytelling Architettonico: il racconto del progetto da un’altra prospettiva

Nell’ambito del convegno formativo Dannati Architetti. Può essere l’architettura raccontata attraverso la voce, tenutosi all’hub Theatro il 14 marzo 2023, ho raccontato la mia esperienza nell’utilizzo della tecnica narrativa dello storytelling in ambito architettonico, soffermandomi sulle dinamiche della comunicazione, da quella scritta a quella orale. In questo articolo torno sul tema riprendendo alcuni passaggi del mio speech.

Iniziamo dalle basi. Che cos’è lo storytelling?

Mentre prima eravamo semplici fruitori e solo i pubblicitari possedevano gli strumenti per promuovere prodotti o brand, come gli editori quelli per fare informazione, oggi (grazie soprattutto all’avvento dei social) siamo tutti comunicatori, e anche il modo di rivolgerci al cliente è piuttosto cambiato. Per coinvolgerlo ed essere competitivi dobbiamo necessariamente utilizzare un linguaggio ficcante.

Una tecnica di narrazione, caratteristica della comunicazione contemporanea e utile a creare un legame con chi ci legge o ci ascolta, è appunto lo storytelling. Sebbene la sua traduzione letterale sia raccontare storie, il suo significato è più vicino al concetto di comunicare attraverso le storie.

Raccontare la propria azienda o raccontarsi dal punto di vista professionale (non per forza personale) è ormai quasi d’obbligo. Farlo attraverso le buone storie può però essere cruciale, perché queste …

  • Non annoiano, ispirano.
  • Creano empatia (in esse ci rispecchiamo, ci immedesimiamo).
  • Aiutano a semplificare i concetti (senza per forza renderli superficiali).
  • Permettono di comunicare valori, veicolare emozioni e informazioni.
  • Sono un ottimo strumento per coinvolgere il pubblico e generare una condizione di fiducia.

Dieci tipi di storie

Sono un progettista, uno studio o un brand, come faccio storytelling? Quale storia racconto? Eccone alcune idee e storie-tipo da poter integrare nel proprio sito web o book aziendale, e nel piano editoriale per social, newsletter e blog.

  1. La storia del fondatore: una biografia, meglio se accompagnata da una citazione evidenziata, per far capire ai clienti che vale la pena investire nella tua realtà.
  2. La storia del valore (accompagnata dal motto aziendale e da dati/numeri): utile a convincere i clienti che hanno bisogno del prodotto o servizio che offri.
  3. La storia dello scopo: per allineare il tuo pensiero a quello di dipendenti e clienti e per ispirarli (il classico mission & vision per capirci). Si può creare un collegamento con le FAQ per sottolineare l’attenzione verso il cliente e determinate richieste.
  4. La storia del progetto: per raccontare la propria professionalità e infondere fiducia nel potenziale cliente. Puoi collegare alla case history un approfondimento sul prodotto utilizzato o su una normativa rispettata.
  5. Il making of: Siamo sempre nell’ambito della storia del progetto, ma qui ci soffermiamo su aspetti molto più tecnici e più difficili da illustrare. I retroscena incuriosiscono e funzionano molto bene soprattutto se abbinati al video o all’immagine. Possono essere dei time lapse (video velocizzati che mostrano l’avanzamento di una costruzione ad esempio) oppure riprese delle varie fasi di lavorazione di un prodotto. Anche l’ante operam – post operam oppure il confronto render – reality sono efficaci.
  6. La storia del cliente o le singole testimonianze: per dare la possibilità a coloro che usufruiscono del tuo prodotto o servizio di condividere con gli altri la loro esperienza e raccontare come gli hai risolto un problema.
  7. La storia della collaborazione: può essere il racconto di un progetto ultimato in collaborazione con un’azienda / professionista in formato intervista. Può seguire un contenuto in collaborazione sui social.
  8. Il contenuto utile. Puoi soffermarti sulle nozioni e sulle soluzioni: consigli pratici, tutorial, curiosità (anche storiche), dati interessanti, tematiche attuali, statistiche significative e normative vigenti.
  9. Il contenuto personale. Un episodio, un evento a cui hai partecipato, un’occasione di team building, un’ispirazione o qualcosa che hai imparato da una determinata esperienza o in seguito ad un errore commesso.
  10. La storia dell’eroe. Per collocare informazioni riguardanti il tuo ambito all’interno di un precedente eccezionale e affascinante, come ad esempio la biografia di un personaggio famoso appartenente alla tua nicchia o la storia di un suo importante progetto.

Su questo decimo punto si basa sostanzialmente Dannati Architetti, podcast in cui racconto la vita e le opere dei grandi dell’architettura. Il progetto, nonostante la sua natura sia prettamente audio, ha riscosso un buon successo nella nicchia, mantenendo gli ascolti costanti nel tempo anche nei periodi in cui non vengono pubblicate nuove puntate. Questo perché le vicende dei protagonisti ci ispirano, ci fanno sognare e infondono speranza (ciò porta gli ascoltatori a riascoltarle anche più volte). Ci aspettiamo che ci dicano qualcosa di importante sul lavoro del personaggio, che ci svelino il segreto del suo successo, che ci forniscano spunti utili o ci insegnino la sua filosofia di vita.

Mentre da nessuna parte troviamo scritta la ricetta per la grande architettura, il racconto della vita dell’architetto tende solitamente a giustificare il valore, l’impatto, l’autorevolezza e il successo del suo lavoro straordinario.

La scelta delle parole

La pratica dello storytelling è a tutti gli effetti una strategia di comunicazione. Bisogna divulgare, spiegare e mettere sul mercato il proprio progetto o prodotto persuadendo della sua necessità.

Nell’ultimo post su questo blog vi ho parlato della sedia Superleggera di Gio Ponti, e di come la scelta di associare l’immagine del bambino che la solleva con un dito al naming del prodotto, fosse stata vincente in termini di marketing.
Stavolta, invece, mi concentro di più sulle parole e su come queste riescano a fare leva sui bisogni del cliente (risparmiare tempo; guadagnare denaro o spenderne di meno; evitare uno sforzo, una multa o una scocciatura; ottenere più benefit o comfort e così via). Se chi vende, infatti, lo fa quasi sempre con le storie, un’altra tecnica che certamente non sottovaluta è quella del copywriting. Ovvero scrivere testi pubblicitari allo scopo di catturare l’attenzione del target di riferimento e spingerlo a compiere un’azione.

Sebbene abbia poco a che vedere con l’architettura o con prodotti di design, trovo interessanti e ancora attualissimi alcuni dettagli presenti in questi vecchi annunci di David Ogilvy, la cui campagna per Dove lo rese il pubblicitario più famoso del mondo.

  • le testimonianze e lo storytelling: i personaggi raccontano le loro esperienze con Dove direttamente al consumatore, allo scopo di diffondere consapevolezza e creare fiducia.
  • La scelta oculata delle parole il tone of voice: darling è amichevole ed è rivolto esplicitamente al target di riferimento, ossia la donna che si imbatte nella pubblicità.
  • Il focus sull’esperienza e sulla differenza tra Dove e un prodotto tradizionale: Soap dries your skin, but Dove creams your skin while you wash/bath.
  • La presenza di un dato “scientifico”: is one-quarter cleansing cream. Ciò prova il fatto che non si tratti effettivamente di un sapone qualunque, ma di un sapone-crema.

Trasparenza e serietà sono alla base del copywriting e questo vale per qualsiasi prodotto o servizio. La scelta delle parole va fatta sempre con grande attenzione e criterio e in particolare ricordo che …

Gli architetti italiani possono farsi promozione senza contravvenire le regole deontologiche ed in particolare l’articolo 36, il quale specifica che:

È ammessa con ogni mezzo la pubblicità informativa purché tale pubblicità sia funzionale all’oggetto, veritiera e corretta, non sia equivoca, ingannevole o denigratoria e non violi il segreto professionale.

Show don’t tell

Immaginiamo di voler raccontare ad un convegno la storia di un nostro progetto, avvalendoci però di soli dati e nozioni tecniche. Quante persone, dopo la nostra esposizione, ricorderebbero qualcosa? Ve lo dico io, poche. Questo perché siamo più propensi a ricordare qualcosa che abbiamo imparato da una storia rispetto a qualcosa che qualcuno ci ha spiegato tecnicamente.

Show don’t tell, ossia utilizzare le parole per creare un’immagine senza descriverla, o meglio, senza fare un uso eccessivo di spiegazioni, commenti, concetti astratti, tabelle, dati e statistiche, aiuta a rendere (più) memorabile ciò che stiamo dicendo. Questo non significa dover necessariamente scadere nella superficialità o nella semplificazione assoluta, ma spostare il punto di vista.

Il nostro discorso non deve infatti essere incentrato unicamente sulle informazioni e sui nostri risultati, deve prima di tutto parlare ai presenti e lasciare loro qualcosa. Raccontare il progetto da una prospettiva diversa significa, ad esempio, soffermarsi sui retroscena, raccontare le difficoltà che abbiamo incontrato lungo il percorso e come abbiamo risolto i vari problemi. Oppure, ancora, riportare informazioni storiche riguardo la preesistenza o eventi correlati interessanti, al fine di contestualizzare e incuriosire l’audience.

«Sbattici in faccia i fatti, li schiveremo. Incarna quegli stessi fatti in una storia, penderemo dalle tue labbra»

Lisa Cron

Storytelling architettonico, precedenti interessanti.

Mettendo da parte il public speaking e spostandoci su un piano più editorial, vi sono precedenti interessanti nell’ambito dell’architettura per ciò che riguarda la scelta dello storytelling e del formato, e della messa in pratica di strategie discorsive originali. La monografia dello studio danese Bjarke Ingels Group, Yes is more (2011), è costruita come una storia a fumetti che accompagna il lettore in una sorta di dietro le quinte di alcuni progetti, raccontando non tanto gli aspetti tecnici ma l’attitudine progettuale e la filosofia dello studio. È chiaramente un modo per affascinare ed avvicinare chi non è del mestiere, come i potenziali clienti.

Altro grande comunicatore è Rem Koolhaas, del quale ricordiamo S, M, L, XL (1995), libro scritto in collaborazione con il designer canadese Bruce Mau e ricchissimo di schizzi, xerografie, vignette e citazioni pop, e Koolhaas Houselife (2008) docufilm in cui la Maison a Floirac viene esplorata da una prospettiva inedita: quella dell’addetta alle pulizie che entra quotidianamente in contatto con ogni superficie dell’edificio. La pellicola, come spiegano i registi Ila Bêka e Louise Lemoîne vuole “scardinare le convenzioni e la sacralità dei film sull’architettura per mostrare la relazione tra lo spazio architettonico e coloro che lo abitano”.

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